Francoleone47
Franco Leone abruzzese con un lungo passato nel sindacato CGIL dove è stato, anche. Segretario Regionale. In pensione ma con la voglia di "raccontare" esperienze e storie dove convivono fatti e protagonismi delle persone in carne ed ossa. Obiettivo Ci sono domande alle quali la politica, così feconda di parole, non sa mai dare risposte. Soprattutto a quelli dietro, agli ultimi, o meglio a quelli che non hanno giornali, spazio o voce per dare sfogo ai loro bisogni. In genere per fare politica, o meglio per svolgere ruoli istituzionali non è necessario conservare manoscritti, manuali o documenti, descrittivi delle idee o delle motivazioni che hanno spinto tutti quelli saliti, negli anni, alla ribalta o che hanno addirittura scritta la storia, non solo personale, ma di un territorio . Eppure dovrebbe essere “obbligatorio” così come sarebbe utile prescrivere la conoscenza della storia, degli ultimi, di quelli che esprimendo bisogni e desiderio di possesso di “diritti” hanno cambiato le condizioni di vita di tanti, se no di popoli. Contenuti non diversi da quelli che le ribellioni del “popolo” abruzzese hanno espresso in tempi passati. Movimenti e ribellioni che vanno dallo sciopero alla rovescia fino alle giornate di lotta delle tabacchine a Lanciano o dei lavoratori della Monti e dell’ACE di Sulmona per giungere alle lotte del Polo Elettronico o del Vomano. Lotte che hanno vuoto luogo per “cambiare” le condizioni materiali ed intellettuali, sui posti di lavoro, ma anche della arretratezza sui temi della condizione femminile nella società e nel mondo del lavoro. Guardare a quella storia, non paragonabile con la fase che stiamo vivendo, può essere utile per sviluppare gli argomenti necessari alla riformulazione della “domanda” politica di oggi. Qualcuno potrebbe opinare sul fatto che le fasi sono profondamente diverse cioè una differenza determinata da un “target” misto fatta di povertà materiale intrecciata a quella intellettuale. Imparagonabile con il periodo della “rivolta sindacale degli anni ’60 e ’70, anche se simili su tanti contenuti, ma anche inaspettati per i motivi in “campo”. In poche parole è raggelante a 20 anni passati dall’ingresso nel nuovo millennio pensare che le persone che vanno al lavoro, devono occuparsi ancora dei loro diritti, addirittura del valore retributivo della loro prestazione, di orari e rispetto della busta paga. Allora ci deve essere qualcosa che è sfuggita a tutti, o tante cose sfuggite alla nostra attenzione. Dobbiamo recuperare capacità di analisi per comprendere cosa è accaduto di così forte da “sconfiggere” l’ottimismo, migliorista e riformista, sul felice divenire della condizione sociale e del lavoro. Facciamolo a partire dalla descrizione di una passata fase storica, relativamente vicina, per munirsi di letture sullo stato della economia dell’epoca e azzardando ipotesi sul perché, anche con dati statistici, delle attuali condizioni. Quindi l’ambizioso disegno di giungere fino alla conoscenza del perché oggi l’Abruzzo vive dentro un sistema economico, produttivo e sociale dove è percepibile un così alto degrado della sua condizione territoriale e delle persone. Quindi non tutta, ma quella parte della storia dell’Abruzzo che viene raccontata e descritta, evitando di sorvolare sul ruolo, positivo o negativo, di coloro che si sono battuti per cambiarla volevano o addirittura l’hanno cambiata. In subordine anche la necessità di realizzare uno scritto in grado di collegare le fasi storiche con la evoluzione dell’economia abruzzese, risponde anche ad un obiettivo: leggere il ruolo decisivo del sindacato, o più specificatamente della Cgil, in questo percorso. Per giungere a queste conclusioni verranno utilizzati documenti, brani e scritti di storici o di economisti, che a queste fasi hanno dedicate molte delle loro analisi. L’intento è “individuare” quelli che approfondiscono l’area della conoscenza su argomenti di valore storico per il nostro territorio regionale e per la sua gente, magari anche per valutare la loro efficacia. Come detto, in questa nostra narrazione, l’obiettivo è anche quello di portare a “conoscenza” un punto di vista, difficilmente citato o messo in luce, sulle cose che storici ed economisti, descrivono che è quella della misura degli effetti che l’azione sindacale e, quindi della CGIL Abruzzo, hanno saputo introdurre nel quadro delle analisi richiamate. 1° Capitolo – Dal regno d’Italia al 1951. Per mettere le cose in chiaro è bene premettere che, alcuni dati sulla situazione abruzzese, sono stati correttamente estratte dai dati rielaborati Istat e riferite alla Regione degli Abruzzi e Molise. Solo in queto modo è possibile descrivere anche cosa è avvenuto nella prima fase del periodo postunitario, con lo sguardo rivolto al costo pagato dalle classi lavoratrici più umili. Le scelte del Regno sono state una mannaia sulla arretrata economia abruzzese-molisana del tutto collocata in una fase precapitalistica. Non era naturalmente sufficiente la presenza di una umile e timida imprenditorialità, in una piccola parte della proprietà agraria, che con fatica guarda alle prime esperienze di modernizzazione. Un deficit strutturale immenso impoverito dalla mancanza di servizi moderni, che vanno dal Credito fino ai servizi alla collettività, con linee di trasporto viaria e ferroviarie del tutto inadeguate. Restituendo allo storico il suo ruolo, basta citare quanto scritto da Costantino Felice, sullo stato di malessere e di arretratezza vissuto dall’Abruzzo, nel suo “ Il disagio di vivere. Il cibo, la casa, le malattie in Abruzzo e Molise dall’Unità al secondo dopoguerra”. L’autore addirittura ci porta a conoscenza come anche sulla alimentazione si potevano determinare differenze elevate, in base al censo: Il grano era utilizzato dai proprietari benestanti, mentre il mais serviva per il consumo contadino. Non solo differenza di classe ma anche differenza di apporto calorico. Per la verità con la "Battaglia del grano”, di mussoliniana memoria, il Regno d'Italia riuscì ad eliminare un deficit sulla bilancia commerciale di 5 miliardi di lire e a soddisfare quasi pienamente il suo fabbisogno di frumento. Però in Abruzzo, come nel resto d’Italia, essendosi manifestata una crescita di popolazione, nonostante il fenomeno migratorio, si rendeva necessaria un piccolo quantitativo di frumento in più. Ma questa esigenza non trovo risposte, al punto tale che l'economista Domenico Preti, parlò esplicitamente, di Battaglia del grano, utile solo ad operare una generalizzata compressione dei consumi primari, con la riduzione nel corso del Ventennio del consumo pro-capite di grano degli italiani, peggiorando la loro dieta alimentare, introducendo cereali meno costosi per coprire una quota più ampia del loro fabbisogno calorico e proteico. Da qui Costantino Felice descrive una politica alimentare di risparmio, ma destinata a fornire alla gran massa della popolazione calorie al più basso costo possibile. In concreto tutto si tradusse in un grave scadimento dell'alimentazione delle larghe masse, soprattutto contadine. In conclusione con l’entrata in crisi del sistema rotativo mais-frumento, si determinò il passaggio ai foraggi in alternanza con il grano, però questa nuova situazione favorì l’introduzione di bestiame di grossa taglia. Per l’Abruzzo, a proposito delle velleità di “modernizzazione”, si presentò un ulteriore elemento determinata dalla superficie coltivabile, per le coltivazioni agrarie, tutte collocate in gran parte in montagna. Una condizione che ritardava qualsiasi ipotesi di modernizzazione della Agricoltura, determinando scarsità di investimenti dei proprietari sui fondi, e tanto meno la introduzione della meccanizzazione in campagna. Secondo gli storici fu questa la condizione che condusse l’Abruzzo verso la scelta della mezzadria, cioè una scelta “conservatrice” attenta solo al mantenimento del ruolo subalterno dei mezzadri al loro proprietario terriero. Una situazione che non consentiva un accumulo di “risorse” utili alla crescita del mezzadro che riceveva la metà solo per i raccolti cerealicoli, ma molto meno per le colture specializzate quali l’uva (un quarto), per le olive anche meno rispetto al raccolto. Possiamo parlare di occasioni di maggiore sopravvivenza solo per le famiglie dedite alla produzione agricolo-pastorale che tra emigrazione interna e migrazioni stagionali dei lavoratori agricoli si sviluppo la tradizione della pastorizia transumante. La popolazione conobbe la possibilità di instaurare un micro sistema correlato di integrazione economico-sociale, basata su redditi di provenienza diversa. Per questo non è per niente lontana l’idea di un Abruzzo che vede nella pastorizia una delle sue principali fonti di reddito dell’economia abruzzese. Se a questa forma di ricchezza aggiungiamo l’ulteriore flusso di risorse che giungevano attraverso le “rimesse” dei lavoratori emigrati verso i paesi europei, a cui fecero seguito i primi viaggi per le Americhe, possiamo cominciare a dotarci di un’idea della situazione. Intanto bisogna sottolineare che la composizione strutturale della economia abruzzese poggiava sulle rimesse degli emigranti, la maggiore parte appartenente alla categoria degli agricoltori. Innegabilmente però, la storia ci ha insegnato che una volta all’estero i nostri emigrati si adattano a tutti i lavori, in particolare nella edilizia, producendo con le già richiamate “rimesse” una pioggia di capitali verso l’Italia. Una liquidità che ha successivamente svolta un’importante funzione nel processo di crescita economica dell’Abruzzo. Questa raccolta e custodia di valuta straniera, era svolta nell’area abruzzese dal Banco di Napoli. Fornita di presenze ed istituti locali, riuscì a mettere al centro di un servizio capillare di rastrellamento delle rimesse, anche per questa capacità di coprire un’area territoriale piuttosto ampia. Molti storici, descrivono le modalità con le quali le banche riscuotevano le rimesse raccogliendo il risparmio delle famiglie degli emigrati, ma non deve sfuggire che è impossibile quantificare in modo preciso l’ammontare delle rimesse, in considerazione del fatto che oltre alle somme inviate dall’estero mediante gli istituti finanziari, esisteva un canale di rimesse dirette, e quindi sconosciute, effettuate direttamente dagli emigrati senza passare per i canali finanziari ufficiali. Obiettivo degli emigranti era cumulare denaro, per l’acquisto della terra e della casa, investendo così capitali risparmiati all’estero. Una vera e propria emancipazione, una uscita dalla povertà di intere famiglie. Una affermazione di un tratto di economia, che pur presentando questo aspetto positivo, aveva il torto di sottrarre “braccia” al Mercato del Lavoro provocando un ritardo nello sviluppo locale. Tutto avveniva fermo restando che la presenza di maggiore liquidità, dovute anche alla compra vendita di terreni ed abitazioni da parte degli emigranti, diede anche la possibilità di risorse da investire sia nell’acquisto di beni in città sia nell’istruzione dei figli. Da annotare che questo movimento di risorse favorì, però soprattutto le classi più abbienti, che con le vendite di fabbricati e terreni, traevano maggiore profitto dalle rimesse degli emigranti. Ma questo avverrà nel tempo, mentre, facendo riferimento alla Fig. 1, grazie ai dati estratti dalla Fonte ISTAT , possiamo osservare che la economia della regione Abruzzi e Molise nel periodo post unitario “impoverisce” presentando un decremento del PIL di proporzioni “elevate” rispetto a quello nazionale. Infatti grazie ai dati citati possiamo ricavare la tara dell’andamento del PIL delle due Regioni congiunte, fino al 1951, Abruzzo e Molise, rapportato a quello medio dell’Italia. Anticipiamo che solo in un successivo rilevamento, dopo un decennio 1961, i dati PIL delle due regioni verranno rilevati separatamente. I dati contenuti nella Tabella (Dati elaborati su documenti ISTAT), danno l’idea concreta di quanto accaduto in questa parte del paese, nell’Ottocento. Infatti visto che a partire dal 1871 (anno del trasferimento della capitale da Firenze a Roma), già nel suo mese di febbraio, si afferma un punto di svolta per una Italia divenuta finalmente uno Stato unitario con una capitale riconosciuta da molti non solo per il suo passato, ma anche per il suo ruolo “unificante” in quel preciso momento storico. Va sottolineato che il PIL delle due regioni, nell’arco di tempo considerato, addirittura declina fino a giungere a livelli che le collocano in una scala regionale al 3° ultimo posto insieme alla Sicilia e davanti solo alla Basilicata ed all’ultima la Calabria. Per inciso, molti storici di orientamento “meridionalista” hanno posto “riflessioni” storiche sulla convenienza, sociale ed economica, ricevuta dall’ingresso nel nuovo Stato Unitario, delle due regioni. Una ipotesi che non è di sola “scuola”, per l’Abruzzo, ma stesso ragionamento è possibile utilizzare per l’intero Meridione, visto l’atterraggio dei rilevamenti con dati che dimostrano un forte arretramento economico. Fig 1. Dati estratti da Fonte ISTAT - PIL Italia confrontato con Abruzzo e Molise. Separati dal 1951 in poi. Anno Italia Abruzzo e Molise 1871 204,9 79,8 1891 232,7 67,6 1911 298,9 68,0 1931 350,6 63,4 1938 385,3 58,1 1951 481,3 58,1
Dati estratti da Fonte ISTAT - Grafico PIL Italia - Abruzzo e Molise.
Il grafico, con il confronto tra la curva del PIL Italia ed Abruzzo Molise, da una idea molto netta della differenza di crescita della realtà regionale rispetto al Paese, ma anche nel confronto con le regioni come il Lazio e la Lombardia, che nella fase post unitaria colsero l’occasione per rinsaldare la loro differenza positiva. Con descrizione successiva a questa Tabella si propone un Grafico illustrativo dell’andamento economico del periodo successivo all’unità d’Italia, fino al 1951. Mentre il paese cresceva, a NORD e Centro, il Meridione ed Isole, e con esso la regione Abruzzi e Molise, perdeva addirittura vitalità economica. Infatti, nel corso degli 80anni descritti, il valore del PIL decresce del 3%. Abbiamo visto come a partire dal 1871 si sviluppa un divario accelerato e forte nell’andamento del PIL della Regione Abruzzi e Molise con l’Italia, per approfondirsi, ancora di più, con un diverso “differenziale” di crescita, addirittura tra le due regioni con il resto del Sud e Isole, come descritto nella Fig 3 nel confronto del PIL tra Italia ed Abruzzo e Molise. Diviene, quindi legittimo domandarsi quanto abbia influito la politica economica su questa esplosione dei divari regionali. I dati misurabili, dopo gli effetti delle scelte delle politiche economiche, dei primi governi dopo l’unificazione del paese, l’abbiano favorite. Infatti, se prendiamo spunto, dalle riflessioni di diversi ed autorevoli storici scopriamo che questa situazione poteva essere monitorata, e magari corretta, proprio nei tempi analizzati. Una sorta di giudizio sulla leggerezza, o forse indifferenza, sulla efficacia della politica economica dei governi sulle realtà meridionali o periferiche, rispetto alla concentrazione dei poteri forti del Nord Italia. Una lezione che andrebbe tenuta a mente quando si parla di federalismo differenziato. Infine per vedere cosa è accaduto tra il 1871 ed il 1951, visto che questi sono i decenni che risentono delle prime scelte di politica economica dei primi governi della Unità d’Italia e, successivamente, di quelli operativi durante la I Guerra Mondiale e successivamente nel ventennio fascista fino alla Liberazione , possiamo farlo con una figura che rende l’idea dell’andamento del PIL sia della Regione Abruzzi e Molise (insieme fino al 1951), rispetto a quello del SUD ed Isole, e del paese intero. Possiamo così scoprire che alla crescita del PIL del paese di 29 punti, corrisponde un decremento medio di 29 punti che accomuna il declino della Regione Abruzzi e Molise con il Sud Isole Riflessione sull’attualità dei contenuti del 1° Capitolo – Dal regno d’Italia al 1951. Se i dati illustrati nel precedente capitolo, rendono l’idea in maniera esplicita, sull’andamento del PIL nel periodo osservato, diviene chiaro il perché della preoccupazione espressa dagli intellettuali “meridionali” misto a palese ostilità nei confronti del federalismo differenziato. è Molti sospettano che attraverso l’Autonomia Differenziata si voglia propinare quella medicina di Politica Economica tipica dei governi dall’Unità d’Italia in poi, con la sola interruzione del secondo Governo De Gasperi, Ministro Rodolfo Morandi, che introdusse l’idea di uno Stato, motore e decisore delle politiche economiche. Morandi venne nominato Ministro per portare avanti la sua idea di collegare la nazionalizzazione, di alcuni settori strategici (quali l’impresa elettrica), con la programmazione degli investimenti e l’industrializzazione del Mezzogiorno Naturalmente da socialista lavorò pure per la affermazione dei Consigli di gestione, organi di autogoverno operaio, con i quai i lavoratori avrebbero partecipato alla direzione della ricostruzione industriale. Un piano bocciato da alleati e avversari ma, nella composizione del II governo De Gasperi, Morandi da ministro dell’Industria (con Tremelloni sottosegretario), portò avanti, nei dieci mesi di direzione del dicastero, progetti di concretizzazione delle sue idee, sia lavorando per un vasto disegno di programmazione economica, che portando a termine la creazione dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno (SVIMEZ) e, assieme al riformista Luciano D’Aragona, realizzò la legge che avrebbe dovuto istituire i Consigli di gestione. Un progetto politico ardito di stabilizzazione istituzionale dei CG fu quello del socialista R. Morandi che attribuì ai CG la funzione di controllo operaio nelle aziende e un ruolo centrale nella ricostruzione economica in condizioni di parità con le rappresentanze padronali. Il progetto Morandi si scontrò, però sia con gli industriali che intendevano riacquistare il pieno controllo della gestione delle aziende, sia con il PCI che, avendo scartato la via della ricostruzione seguendo il modello di pianificazione sovietica, riteneva non praticabile il progetto Morandi. Anche la posizione democristiana era contraria al progetto Morandi perché in esso si ipotizzava una nascosta possibilità di socializzazione dei mezzi di produzione. Il progetto non è andato avanti, quindi l’unica cosa che esiste nella legislazione, grazie alla riforma del diritto societario, è la possibilità per le imprese di adottare un modello di gestione simile a quello francese o a quello tedesco, in aggiunta alle opzioni che erano già previste nell'ordinamento italiano prima della riforma. Ma stiamo parlando di possibilità. 2 ° Capitolo - Periodo dal 1951 - L’Abruzzo dal dopoguerra fino al 1991. Un quarantennio “influenzato” dal buon meridionalismo. Ma le motivazioni che portano ad apri, operi e chiudi la “Cassa” ci raccontano i guasti di una vicenda all’italiana. Dietro questo agire si apre e si chiude la “questione Meridionale”, perché se questo paese non cresce più, come dicono le statistiche e gli Istituti, ci sarà sicuramente un motivo. Il fatto è che da un certo momento in poi (Scioglimento Casmez) il paese sceglie la via dello sviluppo “diseguale”, auto inguaiandosi nella rincorsa di una economia trainata dal solo Nord, mentre il resto del paese affondava, ma continua per una colpevole ed immutabile scelta politica guidata dai gruppi dirigenti politici con il sostegno di una sprovveduta imprenditoriale, che non riesce a guardare al Sud ed Isole nemmeno come luogo di consumo. Una di quelle situazioni che si continua a non affrontare, pensando che basti produrre solo per i mercati internazionali. Dimenticando quello domestico. Per dimostrare le affermazioni iniziali, e bene, a questo punto, darci un orientamento, rispetto alla fase storica indicata, cominciando a fissare alcune tappe significative, sul periodo di operato della Cassa del Mezzogiorno. Uno strumento, chiamato per chiarezza Casmez, dal punto di vista storico, proposto da un gruppo di meridionalisti con a capo Pasquale Saraceno ed alcuni suoi illustri collaboratori come Donato Menichella, Francesco Giordani, Cenzato, Rodolfo Morandi e Nino Novacco. È fu dietro questa spinta che nel: Anno 1950 – Viene istituita con Legge 10 agosto 1950 nº 646 la Cassa per il Mezzogiorno. La Casmez, è un ente pubblico italiano creato dal Governo De Gasperi VI, per finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico del meridione d'Italia, allo scopo di colmare il divario con l'Italia settentrionale. Dotato di personalità giuridica di diritto pubblico allo scopo di predisporre programmi, finanziamenti ed esecuzione di opere straordinarie dirette al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale, originariamente da attuarsi entro un periodo di 10 anni (1950-1960). L'intervento fu poi più volte prorogato con successivi interventi legislativi. Il finanziamento del piano fu stabilito in 100 miliardi di lire all'anno per i dieci esercizi dal 1951 al 1960: in complesso mille miliardi di lire, subito aumentati nel 1952 a 1.280 miliardi da utilizzare nel dodicennio 1951-1962. Anno 1984 - La Cassa viene soppressa e posta in liquidazione dal 1º agosto 1984. Sostituita, due anni dopo, negli obiettivi e nelle funzioni, dall'AgenSud istituita con la legge 1º marzo 1986 nº 64 e soppressa a sua volta con la legge 19 dicembre 1992 nº 488, a decorrere dal 1º maggio 1993, lasciando al Ministero dell'economia e delle finanze il compito di coordinare e programmare l'azione di intervento pubblico nelle aree economicamente depresse del territorio nazionale. ANNO 1986 - Viene scelta la strada della politica di coesione europea che interviene sulle tipologie di investimento che hanno caratterizzato l'intervento nel Mezzogiorno in Italia, aggiungendone altre a favore della crescita del capitale umano e sociale, con una profonda ridefinizione delle modalità di programmazione degli interventi sul territorio. Tenendo in mente questi brevi appunti storici, possiamo provare a descriverne il significato dal punto di vista economico, per cercare risposte alle domande sul significato avuto da CASMEZ, per la vita delle persone, della qualità del lavoro e dei servizi sui territori abruzzesi dal 1961 al 1991. Tutti elementi di macro economia, molto complessi che possono ricevere una rappresentazione grazie a tabelle e dati economici. Quindi con la Fig. 3 possiamo valutare la variazione dell’andamento del PIL regionale rispetto a quello meridionale, fatto uguale a 100 quello italiano, il grafico rende visibile la evoluzione economica dell’Abruzzo nel trentennio 1916-1991. La prima cosa evidenziabile è che la linea di congiunzione del PIL abruzzese è tutta in crescita nel periodo considerato. Quindi un PIL che si incrementa rispettando le stime e le previsioni degli economisti di Svimez che hanno prodotta la prima spinta operativa alla strumentazione tecnica ed operativa della Cassa. Indubbiamente, almeno per quanto riguarda l’Abruzzo, al netto di diverse critiche del tutto giustificate come quella riguardante il fenomeno dello scarso uso delle risorse dell’Intervento Ordinario, nei fatti quasi interamente sostituite da quelle dell’intervento straordinario, la Casmez ha avuta una funzione fondamentale. Quello dello scarso uso dell’intervento ordinario rappresenta un fenomeno che ha larga parentela anche con periodi più vicini, visto che le risorse ordinarie, prendono ancora oggi una strada più facile verso il Nord. Comunque per l’Abruzzo molte delle considerazioni che all’epoca vennero fatte sulla efficacia dell’intervento nel meridione, trovano “flebili” appigli per poggiare gli argomenti critici di fondo all’azione della Cassa. Ma una cosa è certa per l’Abruzzo bisogna scrivere una storia diversa rispetto a quella del Sud ed Isole, che hanno mostrato un andamento lineare, determinatosi dopo una piccola crescita iniziale dal 1951 fino al 1971, per decrescere tornando, dopo venti anni, a poche unità in più rispetto al 1961. E tutto nonostante l’importante impegno finanziario messo a disposizione, evidentemente scarsamente utilizzato o male orientato visto che non sempre si è sviluppato del tutto correttamente su obiettivi efficaci. Ed è a dimostrazione, delle precedenti affermazioni, che giunge anche il Grafico contenuto nella Fig 4 dove si esplicita, per il solo Abruzzo, l’andamento del PIL appunto in crescita fino al 1991, anche grazie alle attese conquistate dalle “buone” opere della Casmez e della disponibilità delle Istituzioni e del mercato del Lavoro regionale. Nell’ultimo decennio infatti si sviluppano ancora i frutti e la “buona” efficacia dell’azione impostata da CASMEZ, insieme al mantenimento delle buone pratiche messe in piedi dalla stessa , nonostante il suo scioglimento avvenuto già nel 1984, con sostituzione con il nuovo istituto AGENSUD, fondato con la legge n° 64. Ma qui si apre un’altra storia fatta, come già descritto, di cancellazioni, trasformazioni e di definitiva sostituzione con la Politica di coesione europea. Ma tornando a noi, possiamo vedere nella Fig 4 la esplicitazione della situazione e del reale andamento lineare in crescita del PIL dell’Abruzzo che tendeva a realizzare valori omogenei con le parti più avanzate del paese. 3 Capitolo – Antichi esercizi di Autonomia Differenziata. A coronamento del pensiero “conduttore” dei due primi Capitoli si propone questa descrizione dei primi esercizi storici di esperienze di Autonomia Differenziata (AD) con modalità e nomi diversi, ma efficaci per “garantirsi” il sottosviluppo meridionale, e quindi del paese. In altre parti di questo scritto il lettore potrà trovare sprazzi di descrizione del lavorio che, ceti imprenditoriali e borghesi delle regioni ricche, misero in campo, appena dopo l’Unità di Italia, con tenace contrarietà ad una idea di sviluppo armonico del tutto estranea alla loro idea di egoismo territoriale. Quindi, a questa stessa categoria culturale, di antico retaggio storico, appartiene il meccanismo “diabolico”, messo in atto dal Governo Berlusconi e congegnato dal Ministro Calderoli, con la Spesa Storica. Uno scippo di risorse trasmigrate verso il Nord del paese, a sfavore del Sud ed Isole. Non hanno avuto particolare fortuna i tentativi, effettuati dal governo Conte 2, di ripristino dell’equilibrio nella distribuzione delle risorse fisali del paese attraverso i Fondi Europei e la applicazione della cosiddetta clausola del 34%. Era un punto essenziale per dare uno stop al giochino dei Fondi Europei sostitutivi delle risorse ordinarie, pari al 34% che spettano ai residenti del Mezzogiorno: Oggi siamo al punto di partenza visto che nel 2023, attraverso il Governo Meloni, assistiamo, con sostegno “unanime” del Governo, al ripetersi di un tentativo di spostamento di risorse verso i già “ricchi”, per niente tranquillizzante. Non lo è anche perché, nella vulgata politica attuale, per sostenere la tesi dell’AD, si usano gli stessi argomenti di sempre, con linguaggio moderno e rinnovato. Fina dai tempi antichi, secondo le tesi di alcuni studiosi, il diverso tasso di sviluppo, origine dell’attuale divario economico tra Nord e Sud, era originato dalla diversa esperienza comunale medievale. La maggiore incisività del sistema istituzionale nord avrebbe aiutato le “genti” a sviluppare un maggiore competitività civica, con mercati e amministrazioni più funzionali, mentre il Meridione pagava il peso ed il ruolo di potere delle élite conservatrici ed arretrate latifondiste. A queste conclusioni, ad esempio, giunge il nostro conterraneo abruzzese Emanuele Felice, del tutto corroborato dalle tesi sul feudalesimo più marcato descritte da Antonio Gramsci. Considerazioni del tutto importanti, che vengono accompagnate dalle considerazioni sulla esistenza di una situazione di partenza sfavorevole, dovuta alla maggiore arretratezza tecnologica del Regno delle Due Sicilie rispetto agli altri stati preunitari. Un giudizio storico non chiarissimo perché gli stessi storici documentano alcune attività predatorie nei confronti delle “eccellenze” meridionali. Una attività questa che ha accentuato l’impoverimento economico e culturale del mezzogiorno. È utile però che a questa lettura se ne aggiungano altre diverse provenienti da diversi altri storici che hanno avanzate tesi diverse e che mostrano come la correlazione tra il civismo di oggi e l’inclusività delle istituzioni politiche medievali svanisce se si considera il civismo passato. Ci riferiamo a storici del calibro di Giovanni Federico, Carlo Ciccarella, Stefano Fenoaltea e Paolo Malanima sostenitori, dati alla mano, che i due blocchi centro Nord e Meridione Isole, erano sottosviluppati allo stesso modo, perché già nel 1861 (anno dell'unità d'Italia) quanto viene effettuato il primo censimento della popolazione si scopre che i residenti ufficiali erano 22.176.477. Un punto di debolezza per il “possesso” di una economia forte. Infatti emergeva una Italia indebolita dalla sua inconsistenza di risorse umane in grado di trasformarsi in tempi ragionevoli in capitale sia reale che infrastrutturale. Erano necessari processi lunghi diversi da quelli messi in movimento all’epoca dalle scelte di politica economia e fiscale che non potevano dare di certo soluzioni diverse dai divari concretizzatisi in termini di PIL. Per la verità le politiche economiche dei primi governi postunitari sono quelle che hanno operato all’esatto contrario, di una visione di sviluppo “eguale” del sistema paese, scegliendo la concentrazione di risorse a favore delle regioni più ricche. A sostegno sono giunti gli approfondimenti, anche statistici, effettuati da uno studioso inglese, lo storico Christofer Duggan, il quale affascinato dalle conseguenze create in Europa dall’affacciarsi della giovane Italia, nello scenario internazionale, tradusse il suo interesse in una constatazione che svelò il condizionamento che subiva il processo economico italiano a causa della predominanza politica dell’élite settentrionale. Infatti lo studioso sostenne la sua intuizione con una chiara descrizione statistica e con numeri che confermavano che circa l’85 % dei presidenti del consiglio e di tutti i prefetti, e il 60 per cento dei vertici amministrativi era di origine settentrionale. A questa considerazione statistica, quindi della predominanza delle élite settentrionali, venne opposta una giustificazione dovuta dalla necessità di sostenere e privilegiare i territori di confine militarmente più rilevanti strategicamente, rispetto alle regioni più distanti. Una giustificazione “patriottarda”, forzata e non veritiera, visto che già nel 1887 una “micidiale” riforma protezionista entrò in campo senza nemmeno guardare alla tutela dell’arboricoltura meridionale che la fece schiacciare dal declino dei prezzi internazionali degli anni Ottanta. Una ecatombe economica per gli Abruzzi e Molise. Mentre nessuna risposta venne data sul perché, fiorenti industrie tessili e meccaniche del Meridione, vennero abbandonate, o trasferite al Nord, sotto la spinta del sostegno dato dalle “laute” commesse statali verso le imprese del Nord. Le bonifiche agrarie, l’assegnazione del monopolio del conio alla piemontese Banca Nazionale, l’affidamento dei monopoli nella costruzione e operazione di navi a vapore alle aziende genovesi e, soprattutto, la spesa pubblica nella rete ferroviaria che raggiunse il 53 per cento del totale tra il 1861 e il 1911. Risorse, per sostenere la politica degli investimenti pubblici provenienti dalle imposte sulla proprietà fondiaria altamente squilibrate, tutte sfavorevoli al Sud e Isole. Così fu con la riforma fiscale del 1864 “ideato” per spostare risorse a sostegno dello sviluppo del Nord, che prevedeva un “contingente” di 125 milioni da raccogliere, per il 40 per cento dall’ex Regno delle Due Sicilie. Uno squilibrio enorme, che nei decenni successivi, vide la crescita di un fiorente settore manifatturiero affermarsi nel Settentrione, e la crescita con le 150 mila vittime del brigantaggio e dell’emigrazione di massa di inizio Novecento. Da questa lettura, compresa la dinamica istituzionale che ha caratterizzato l’inizio della nostra storia unitaria si può dunque trarre una lezione utile ancora oggi: politiche economiche che favoriscono solo una parte del paese possono avere un impatto drammatico e duraturo sulle scelte del resto della nazione. 4 Capitolo - Anno di svolta il 1981 nell’andamento Demografico dal 1951 al 1991. Viene segnato dal censimento del 1981 dove finalmente la popolazione regionale, del solo Abruzzo, residente e censito registra una sensibile ripresa. L’Abruzzo passa da 1.166.694 ad 1.217.791 abitanti segnando un aumento di più 51mila abitanti pari ad una crescita del +4,4% rispetto al 1971. Questo andamento, non è legato ad alti indici di natalità, ma è soprattutto legato al fenomeno dei rientri migratori, che hanno invertito il valore del saldo migratorio. Un saldo migratorio che inizia l’inversione a partire dagli anni 50’ grazie al forte processo economico e sociale che ha investito l’Abruzzo, negli anni successivi, con un conseguente aumento progressivo del PIL. Basti pensare che nel 1951 il PIL è stato del 58,1%, per proseguire nel 1971 con l’82,8%, mentre già nel 1981 si attestava al 86,6 %. Sappiamo che dieci anni dopo, fase post Casmez, il PIL arriva all'88,7 % dando all'Abruzzo il primato nel Sud Italia ed un tasso di crescita simile ad ogni altra regione d'Italia del Centro Nord. Molti assegnano questo successo al forte impulso ricevuti per l'economia regionale, dalle infrastrutture, come i servizi idrici rafforzati, o a quelli della energia, ma fondamentalmente è la costruzione delle autostrade principali della regione che accendono le “luci” sulla regione aprendola a nuovi investimenti, spingendo molte aziende e multinazionali ha stabilire le loro industrie in varie località della regione. Un mix, quindi dovuto a “buona “ ricchezza di servizi , di strutture ed infrastrutture, spinta dalla Cassa del Mezzogiorno, ma anche all’essere regione per molti anni di “frontiera” con il Nord, però per molto tempo appartenente anche all’area degli interventi “straordinari”, fino alla fuoriuscita dall’Ob. 1. Riprendendo il filo del ragionamento, possiamo affermare che è in questo contesto che si va delineando la crescita della richiamata necessità di maggiori “risorse Umane” e, quindi un rientro positivo nel saldo migratorio che inizia con una costante media di crescita pari a +3000 unità all'anno, però per circa i 2/3 provenienti dall'estero in quanto l’indice di natalità resta sempre più vicina alla "crescita zero". Segno del comportamento di grande debolezza del sistema Abruzzo con natalità poco superiore al 9,7‰ nel 1988, mentre la mortalità si stabilizza intorno al 9‰ annuo. Risultato il conseguente e progressivo invecchiamento della struttura per classi di età. In conclusione dobbiamo comunque annotare che il rientro dei migranti è spinto dalle necessità presentate dalla crescita del PIL che richiede un arricchimento del Mercato del Lavoro, per rispondere alle nuove esigenze produttive ed industriali. Diventa del tutto evidente la funzione positiva svolta dalle iniziative Casmez in Abruzzo grazie alla robusta politica di infrastrutturazione dei servizi, prima, di strutturazione di opere, poi e di industrializzazione vera e propria successivamente, anche attraverso incentivi mirati. Naturalmente, è utile segnalarlo, i dati demografici raccontavano anche che tale andamento demografico presentava marcati divari territoriali, infatti nel decennio intercensuario tra il 1971 ed il 1981 la provincia dell'Aquila segnava addirittura un ulteriore, seppure modesto regresso pari al −0,5%, mentre tutte le altre province lasciavano intravedere incrementi superiori alla media regionale. Il massimo valore, pari a +8%, è raggiunto da Pescara, che si segnala come un estremo dal punto di vista della densità rispetto alle zone interne montane. Tra queste ultime con quelle esterne costiere, si presentavano carichi, rispettivamente, da neppure 60 ad oltre 230 abitanti per kilometro quadrato. Un forte processo di concentrazione litoranea che, nell'ambito delle stesse province più dinamiche, segrega nettamente anche le zone altocollinari e montane. Le uniche zone interne di discreta potenzialità sono rappresentate dalle conche aquilana, fucense (Avezzano) e peligna (Sulmona). Un processo, montagna costa, che per anni è stato considerato irreversibile, però più recentemente, accompagnato dai dati negativi del PIL regionale, ha cominciato ha presentare un segno diverso, cioè dal 2013 al 2020, l’Abruzzo ha perso 48.906 abitanti, evidenziando una decrescita pari al 3,68%. La notizia ulteriormente negativa è che sono più della metà i 26.567 giovani in meno, due volte e mezzo di più della media italiana, che emigrano producendo uno svantaggio culturale congiunta alla definizione di un insediamento di una popolazione meno attiva e meno produttiva. Quindi è avvenuto che dal 1861 al 1951, la popolazione abruzzese è sempre aumentata, ma nei censimenti che vanno dal 1961 e 1971 assistiamo ad una popolazione che passa da 1.206.266 abitanti (-5,5%) a 1.167.000 (-3,3%). I dati ufficiali ci hanno già detto che solo nel 1981 si osserva di nuovo un aumento della popolazione, come visto di 1.218.000 (4,4%), che si conferma negli anni 1991 e 2011 rispettivamente con 1.262.392 e 1.307.309 abitanti (2,5% e 3,6%). Tabella su : Dati popolazione ai censimenti dal 1871 al 2021 Censimento Anno Data Residenti % 11° 1971 24 ottobre 1.166.694 -3,3% 12° 1981 25 ottobre 1.217.791 +4,4% 13° 1991 20 ottobre 1.249.054 +2,6% 14° 2001 21 ottobre 1.262.392 +1,1% 15° 2011 9 ottobre 1.307.309 +3,6% III 2021 31 dicembre 1.275.950 -2,4% I dati più recenti anno 2021 avvicinano la popolazione abruzzese a 1.275.950 unità: che purtroppo appaiono in qualche misura sovrastimati, come già si è verificato in passato per le registrazioni anagrafiche, a causa del generale ritardo nell'annotazione dei cambi di residenza. Abbiamo visto nella Tabella su : Dati popolazione ai censimenti dal 1871 al 2021 pubblicata nel precedente capitolo che a partire dal censimento 2011, proprio dopo un periodo di graduale crescita segnalatisi nei successivi censimenti a quello del 1971. Il grafico che segue mostra in maniera figurativa tutto l’avvenuto dal punto di vista demografico nella nostra regione che al momento della separazione dall’altro territorio Molisano presenta un’accettabile situazione demografica, che diviene però poi insostenibile per una regione desinata a crescere ma con carenze di risorse umane. Abbiamo già visto che nel 1981 si produce un rientro importante di emigrati abruzzesi che forniscono una buona base di “risorse umane”.
Ma dopo questa lenta crescita che assume il suo “apice” nel censimento 2011, dove ancora i rientri “migratori” la fanno da padrone, visto il perdurante basso indice di natalità, dobbiamo assistere ad una “preoccupante” inversione delle residenze, purtroppo neanche mitigati dai crescenti fenomeni di immigrazione che sembra ci riguardano poco. È avvenuto proprio nell’anno in questione 2018, che i dati della percentuale di Occupazione degli abruzzesi si è attestato al 62,2%, un decimo di punto sotto la media italiana (62,3%), ma a ben 10 punti di distanza dalla media Ue del 72,3%. (Dati Open Polis-Agi elaborazione dei dati Istat). Una situazione ben lontana dagli obiettivi fissati dalla Commissione Europea che, nella sua strategia adottata nel 2010, stabiliva alcuni obiettivi da raggiungere nel decennio relativamente ad alcuni ambiti di intervento: dall’aumento dell’occupazione alla lotta al cambiamento climatico, dalla promozione di istruzione e ricerca al contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Oggi sappiamo che gli obiettivi fissati sono stati, praticamente tutti mancati, tra gli altri l'obiettivo fissato il raggiungimento del 75% di occupati tra i 20 e i 64 anni, giunto al 72,3%, mentre l’Italia con un tasso di occupazione al 62,3%, è al penultimo posto, (solo la Grecia ha fatto peggio). Dell’Abruzzo abbiamo già detto, però possiamo aggiungere che con il suo 62,2 % , scende , anche rispetto al 2008, ad un tasso di occupazione inferiore dello 0,9%. (Hanno fatto peggio solo Molise, Campania, Puglia, Umbria, Calabria e Sicilia). Una ulteriore annotazione riguarda le donne che lavorano in Abruzzo, sul totale della popolazione femminile, nello stesso periodo erano meno del 50% (48,9%), ben al di sotto la media italiana, che era del 52,5%, la quale è, a sua volta, 14 punti più bassa di quella europea (66,5%). L’altra ed ultima osservazione va fatta sull'occupazione giovanile, statistica nella quale se l'Italia è al penultimo posto nell'UE, l'Abruzzo, con il 37% (dato del 2018) si colloca ben al di sotto la media nazionale, per non parlare di quella europea. Allora appare chiaro il perché del crollo a picco del Reddito medio degli abruzzesi nell’anno 2018. È sfuggito a molti, ma soprattutto ai decisori politici, che, già nel quinquennio precedente (2012-2017) il numero di Imprese fletteva ad una velocità doppia rispetto a quella nazionale, ponendosi all’ultimo posto della graduatoria nazionale. Ed ecco il perché dell’arrivo di questi numeri raggelanti per la nostra regione: Accade che:
- il reddito medio Abruzzese per contribuente (17.962) è molto più basso (85%) di quello nazionale (21.245); - la metà dei contribuenti Abruzzesi (49%) ha un reddito nella fascia più bassa (sotto i 15mila euro) mentre a livello nazionale tale quota è del 43%. Alle considerazioni sull’andamento della occupazione nella nostra regione, dove i numeri sono tutti in caduta verticale a partire dal tasso sull’occupazione, ma con un tasso dell’occupazione giovanile e delle donne tra i più bassi delle regioni italiane, bisogna aggiungere che i redditi più consistenti, dei dipendenti (53%), dei pensionati (32%) e degli imprenditori (7%), hanno tutti un valore medio parecchio più basso di quello medio italiano. Una scala di valori, che lascia emergere come, il reddito medio: • per dipendente (18.428) è pari al 98% di quello italiano (20.817); • dei pensionati (15.658) segna l’88% di quello nazionale (17.873); • degli imprenditori (13.998) registra appena il 72% di quello italiano. Il reddito medio per contribuente di 17.962 euro pone l’Abruzzo al 13° posto della graduatoria Nazionale. Da questi numeri, che cominciano ad esplicitarsi nell’anno 2018, dobbiamo cominciare a chiederci cosa è avvenuto. Perché se è vero che “l’egoismo” territoriale era riuscito a neutralizzare uno strumento formidabile come la Cassa del Mezzogiorno, che per la crescita dell’Abruzzo , come abbiamo visto è stato fondamentale, il mancato cambiamento di passo degli abruzzesi , a partire dalla Istituzione. La regione non ha saputo reagire a questa nuova situazione, mettendo in campo riforme, a partire dalla sua struttura burocratica regionale, da arricchire con personale “formato” e “specializzato” per attrezzare l’insieme alla novità accrescendone la capacità di progettare e spendere le risorse Ordinarie e straordinarie. Non è stata altrettanto efficace la produzione di politiche pubbliche, del tutto inadeguate al sostegno della qualità delle Imprese abruzzesi, della necessità della sua crescita in dimensione, per sostenerla nei processi di innovazione, internazionalizzazione e di crescita nei mercati. In conclusione la situazione affermatisi è stata anche parte del “cesto Velenoso” che insieme ai risultati di mancate scelte nel sostegno alle attività produttive, ha prodotto costi sociali ed economici anche sui redditi dei residenti abruzzesi. Ad essa deve essere aggiunta la mancata esistenza di una politica positiva ed attenta a sviluppare attraverso le Istituzioni le iniziative per “stimolare” con la richiesta di una diversa politica finanziaria, da parte del sistema bancario e creditizio operativo sul territorio regionale. L’Abruzzo non poteva, e non può sfuggire dal che il sistema produttivo abruzzese fatto da micro, piccole, artigianato e PMI non ha nessuna speranza di rilanciarsi e di rilanciare il suo sviluppo economico, sociale, produttivo e della occupazione, con questo sistema finanziario. Ma c’è qualcosa altro che determina questo blocco economico così duro per le prospettive regionali, al quale bisogna, per ovvi motivi, fare cenno per “tinteggiare” il quadro fosco nel quale precipita la Regione Abruzzo in assenza di giusta reazione. Mettendo in fila le cose dobbiamo dire che dopo la positiva azione della Cassa del Mezzogiorno, per l’Abruzzo decade la capacità di proposta progettuale, della gestione finanziaria nel sostegno alle attività produttive e nella predisposizione ed erogazione dei servizi, per niente sostituita in una regione mostratasi carente anche nella capacità di sostituirsi alla qualità precedente. È venuto a mancare un partner fondamentale. Però non sfugga a tutti la circostanza che chi ha voluto perseguire questo processo di egoismo territoriale non lo ha concluso con l’atto di scioglimento di Casmez. Durante e dopo si è sviluppata una azione di svuotamento di molte attività produttive e di servizio svolte in Abruzzo. Un esodo di sedi centrali e di uffici di direzione amministrativa e tecnica, di personale di alto profilo professionale, costante e continuo, che svolgevano attività di servizio, di impresa e di operatività in tutti i settori dei Grandi Gruppi ex Pubblici. Tutto è avvenuto senza che la Regione abbia mai ritenuto decisivo affrontare il problema di una presenza ancora necessaria, anche in termini di “fertilizzazione” del territorio ed anche, perché no di reddito che fuori usciva dallo stesso. In concreto lo svuotamento della presenza dei grandi gruppi pubblici o ex-pubblici, fornitori di servizi, infrastrutture, reti di importanza vitale avviavano un processo di declino economico e dello sviluppo. Non sono state piccole questioni, stiamo parlando di grandi aziende che svolgono, e svolgono ancora, anche nel panorama internazionale, attività significative. Stiamo parlando di aziende come Telecom, Enel, Eni, Agip, Ferrovie, Poste ed Autostrade. Questo tema non è mai divenuto patrimonio comune, seppure posto dalla Cgil, insieme al sindacato unitario abruzzese, non è mai stato oggetto di un interessato dibattito o di azioni determinate e sistematiche, tendenti ad una trattativa di riequilibrio con i protagonisti del processo: Governo, Imprese e regione. Un tavolo sul quale fare valere le ragioni di un Abruzzo che stava perdendo molto e, che poteva ragionevolmente rivendicare quote certe e quantitativamente adeguate sostitutive in termini di investimenti, progetti, opere, invertendo la tendenza al ridimensionamento e al disinvestimento. Ma, al contrario si è sviluppata, in virtù di quel richiamato “esodo”, un costo per l’Abruzzo consistente in perdite dirette di reddito, di sapere, di conoscenze tecnologiche, ma anche occupazionali e professionali ed in termini strategici, data l’importanza dei prodotti, dei servizi, delle infrastrutture primarie e delle reti che fanno capo a questi gruppi, di presenza di “conoscenza” sul territorio. La nostra regione è stata, quindi spettatrice distratta di un vero e proprio scippo di risorse materiali, intellettuali e di lavoro. Non ha saputo reagire alla fuoriuscita di lavoratori, dirigenti e tecnici, di ogni livello unitamente ai centri direzionali e decisionali. Un processo di privatizzazione, e non di liberalizzazione come richiesto dall’Europa, che ha riguardato tutti i settori ex-pubblici. Alle acquisizioni private, per noi, sono subito seguite le conseguenze dei Piani Industriali che hanno tutte previste solo riduzioni per l’Abruzzo. Ed è così che gli attuali gestori pur continuando a fornire servizi all’Abruzzo si sono, quasi tutte, lanciate nei meandri di opulente attività finanziarie, immobiliari e bancarie, mentre non rammentiamo investimenti in attività di servizio e tanto meno in attività produttive. Per l’Abruzzo non c’è stato niente, solo spoliazione, ma non c’è stata neanche una reazione solidale, bisogna ammetterlo, le stesse proteste sindacali non hanno trovato ascolto. A poco sono serviti anche gli accordi sottoscritti con diverse Giunte Regionali per realizzare una “vertenza Abruzzo” con un pacchetto rivendicativo nei confronti dei Governi. In cambio, ad esempio parlando dell’Enel sono pervenuti esuberi, immediati, pari a circa mille posti di lavoro, mentre per i restanti gruppi tra mobilità, esuberi e pensionamenti, mai rimpiazzati, possiamo parlare di un esodo di all’epoca di altre migliaia di posti di lavoro. È bene ripetere, però che il danno più grave, inferto all’Abruzzo, è stata la perdita di energie intellettuali e tecniche, utili ai richiamati processi di fertilizzazione progettuali del territorio. Da queste considerazioni nasceva l’insistenza sindacale sulla necessità di un confronto, chiaro, con i grandi gruppi ex-pubblici. Ma come è noto, tutto questo movimento non ha avuto grande successo, mentre tra le “pieghe” della politica nazionale cresceva un processo nell’uso politico ed economico delle risorse, teso alla “desertificazione meridionale”, ed in esso l’Abruzzo. Un grande processo partito con la Riforma Fiscale (Capitolo V° della Costituzione), per avviarsi verso il capitolo della Autonomia Differenziata. Tutto ciò ha prodotto atti recanti una azione “depredatrice” verso il Mezzogiorno, compreso l’Abruzzo. Togliendo risorse in capitoli importanti, dalla Istruzione fino alla Sanità, nell’ordine di centinaia di milioni di Euro. A questo fine il Dott. Ronci ha elaborato un Report significativo sul “danno” economico prodotto dalla Legge Calderoli con una precisa chiave di lettura. Per la verità la distribuzione di finanziamenti e risorse nel paese veniva regolata dalla “Legge Calderoli” n° 42/2009). Una normativa però mai applicata, per cui si diede dare luogo al meccanismo “diabolico” della Spesa Storica. Il tutto ha prodotto per un intero decennio uno “scippo” di risorse dal Mezzogiorno verso il Nord. Per questi motivi se vogliamo estrarre dal Report Ronci i dati economici della situazione scopriremo cosa è avvenuto per l’Abruzzo nell’anno 2017, sia per la sanità che per l’istruzione. L’Abruzzo subisce una decurtazione nella sanità di 252 milioni di euro. Nella Istruzione l’Abruzzo subisce una decurtazione di 142 milioni di euro. In conclusione le variazioni totali (sanitaria e istruzione) sono positive per Lombardia, Veneto, l’Emilia-Roma e Lazio, negative per tutte le altre Regioni del Centro e del Mezzogiorno. Abbiamo visto, quindi come per l’Abruzzo si è cumulata nei due settori una decurtazione di ben 394 milioni di euro. Oggi sarebbe necessario cogliere la novità data dall’irrompere sulla scena del Recovery Funds e sulle possibilità che si aprono nei settori che vanno dal Turismo all’Ambiente, ma anche nel sistema delle imprese per la loro innovazione, internazionalizzazione e transizione digitale. Una sfida anche per noi per il sistema istituzionale regionale e comunale, ma anche per il mondo della finanza e dell’impresa, Come abbiamo visto se restiamo fermi non andiamo oltre il vivere in una regione già caduta nella decadenza. Purtroppo la “persistente” mancanza di trasparenza sulle attività, anche della regione Abruzzo, progettuali e finanziarie sul PNRR non ci consentono di dire se si stanno facendo cose utili per gli abruzzesi. Un solo riferimento all’attualità, del PNRR, possiamo farlo sulle cose lette sul Piano di rilancio della sanità territoriale, per dire che non ci siamo e che se la Giunta Regionale non comprende che deve partire dal capitolo “risorse umane” In ogni caso, sembrano perdurare le tendenze avviatesi negli anni Settanta, mentre diversi centri della zona costiera rallentato notevolmente il ritmo di crescita per la quasi completa saturazione abitativa del nucleo urbano centrale. La rete insediativa mantiene il policentrismo rilevabile fin dalla prima fase di industrializzazione (anni Sessanta), avvicinando il modello abruzzese più all'Italia centrale che alla meridionale. Oltre al fenomeno della metropoli emergente, Pescara (con un'ampia corona di centri vicini: Montesilvano, Spoltore, San Giovanni Teatino, Francavilla al Mare, fino al polo secondario di Chieti, per un totale di circa 260.000 ab.), sistemi urbani relativamente solidi si delineano nel Teramano (l'allineamento costiero pressoché ininterrotto da Martinsicuro a Silvi, saldato al capoluogo dall'asse trasversale con Giulianova), nel Chietino (con le aree Lanciano-Val di Sangro e Vasto-San Salvo) e negli stessi bacini intermontani sopra ricordati. A richiamare i problemi delle aree interne contribuiscono dissesti e calamità naturali come il terremoto con effetti, nella percezione degli abitanti, più sensibili dei danni effettivamente subiti dalle strutture insediative. Ed è così che quel principale indicatore delle condizioni socio-economiche che portano sempre più a collocare l'A. in una situazione intermedia fra la cosiddetta terza Italia e il Mezzogiorno; in particolare, la regione potrebbe essere vista come il proseguimento verso Sud della via adriatica allo sviluppò' aperta durante gli anni Settanta dall'affermarsi, nelle vicine Marche, dell'industria diffusa, in genere di piccola dimensione. In realtà, l'accostamento non è interpretabile in maniera univo ca. Per es., se l'incidenza della popolazione agricola era scesa in torno al 15% al censimento del 1981 (rispetto al 28% del precedente), tale valore scende di poco nelle più recenti statistiche sull'occupa zione, risultando all'incirca doppio di quello del Centro-Nord e inferiore di soli 2 punti a quello stesso del Mezzogiorno. Eppure la modernizzazione agraria è evidente nel paesaggio, corrispondendo a fattori diversi: da un lato l'innovazione tecnologica (meccanizzazione, colture intensive in serra), che porta all'abbandono crescente delle terre marginali; dall'altro lato l'urbanizzazione, che, pur contendendo al settore primario spazi di elevata fertilità, induce anche un miglioramento dei servizi e del livello di vita, decisivo al fine di trattenere l'insediamento sui fondi, pur con largo ricorso alla pratica del part-time. In complesso, tali fattori concorrono a formare una superficie dell'incolto e improduttivo pari a 1/4 della totale. Nel decennio 1975-85 il primario ha quasi dimezzato il proprio contributo, in termini relativi, alla formazione del reddito regionale (dal 16,5% a meno del 9%), tendenza fisiologica perché compensata da una maggiore produttività per addetto nei settori extra-agricoli. Quest'ultimo aspetto, invece, rappresenta uno degli elementi deboli nel processo di sviluppo economico abruzzese, riscontrabile nella stagnazione dell'indice di reddito pro capite, che, superato l'80% della media italiana fin dalla metà degli anni Settanta, sembra avere raggiunto il proprio limite (82% nel 1985), rimanendo staccato di ben 15 punti dalle stesse regioni centrali più vicine (Umbria, Marche) e pur continuando a vantare un margine positivo di poco inferiore a tale cifra nei confronti del Mezzogiorno. Il settore secondario, in particolare, ha manifestato dapprima una significativa controtendenza rispetto all'aggregato nazionale, con la diminuzione di numero delle unità locali (−20% nel decennio 1971-81) e l'aumento degli addetti (oltre 50%) nei rami strettamente industriali: di conseguenza, la dimensione media è passata da 40 a quasi 60 addetti (escludendo le imprese artigianali). Nel ramo delle costruzioni la tendenza è risultata opposta: nello stesso periodo le unità locali sono addirittura più che raddoppiate, mentre il numero degli addetti è cresciuto di circa 1/4, proprio in corrispondenza con una crisi edilizia che, oltre alle motivazioni comuni all'intero paese, ha trovato nella diminuita concorrenzialità un elemento di ulteriore distorsione del mercato. Le rilevazioni delle forze di lavoro al 1989 indicano nel 28% l'incidenza del secondario sull'occupazione complessiva: il dato, pur non confrontabile con quello (notevolmente più alto: 37%) rilevato al censimento della popolazione del 1981, indica una flessione effettivamente verificatasi a partire dal 1982, anche se in misura inferiore rispetto alle regioni maggiormente industrializzate, e la corrispondente crescita relativa del terziario, giunto ad assorbire il 58% degli occupati e a produrre il 59% del reddito regionale (contro il 32% dell'industria). Fra le localizzazioni recenti e più significative, è da registrare l'impianto automobilistico SEVEL in Val di Sangro (con circa 3000 addetti), affiancato da altre attività nel settore meccanico ed elettromeccanico (Vastese), mentre ha assunto una fisionomia peculiare − a Nord − il distretto della Val Vibrata, specializzato nelle produzioni di calzature e abbigliamento in piccole unità a conduzione familiare. Nuclei industriali e artigianali si sono formati un po' dovunque, anche al di fuori delle aree attrezzate, confermando il carattere diffuso delle strutture produttive abruzzesi. Tale carattere è legato soprattutto al miglioramento della rete viaria. Il completamento dell'autostrada Avezzano-Pescara e l'apertura al traffico (1984) del traforo del Gran Sasso, ultimato già nel 1980, hanno reso assai più rapidi i collegamenti fra Roma e l'Adriatico, pur se la prosecuzione del tronco autostradale verso Teramo e il mare incontra ostacoli di natura finanziaria e politica. Da rilevare, poi, l'importanza di alcune strade a scorrimento veloce, sia lungo i fondovalle (Sangro, Trigno), sia parallelamente alla costa, dove le tratte Ascoli-Teramo (in costruzione) e Chieti-Guardiagrele rappresentano i capisaldi della progettata direttrice interna che dovrebbe unificare, in senso longitudinale, la struttura idrografica a pettine, finora causa di un accentuato frazionamento dell'area collinare. In campo ferroviario va segnalata l'inaugurazione (1988) della nuova stazione di Pescara, che ha finalmente dotato il maggiore nodo abruzzese di una struttura adeguata ai possibili sviluppi del traffico, specie di passeggeri. Quest'ultimo risente tuttavia dell'obsolescenza − probabilmente irrimediabile − di alcune linee (in particolare, la Sulmona-Roma e la Isernia-L'Aquila-Terni), mentre sono iniziati, tra pesanti difficoltà di carattere sia geologico che insediativo, i lavori per il parziale arretramento e il raddoppio della litoranea. L'aeroporto di Pescara non ha ricevuto peraltro la necessaria valorizzazione, pur essendo stati attivati, in aggiunta al collegamento di linea con Ancona-Milano, voli di terzo livello con Torino e charter con i paesi dell'Europa centro-settentrionale e orientale (in particolare con Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica); restano in discussione opere di potenziamento dei servizi a terra e di assistenza agli aeromobili. Nel contesto di tali fattori positivi e negativi, il movimento turistico si è mantenuto intenso (1.993.000 arrivi con oltre 19.700.000 presenze nel 1988), manifestando sempre più la tendenza a fare uso di seconde residenze, le quali costituiscono ben il 70% dei posti-letti complessivi. Ciò aumenta la permanenza media dei villeggianti e favorisce intensi flussi pendolari nei fine-settimana, in particolare verso le località montane nella stagione invernale, ma crea anche notevoli problemi organizzativi al sistema commerciale e dei servizi pubblici, con preoccupanti fenomeni di congestione e degrado ambientale nel litorale a nord di Pescara e in alcuni bacini sciistici (Altopiano delle Rocche, Altipiani Maggiori, Campo Felice, Passo Lanciano). Da segnalare, per la nautica da diporto, la costruzione di un moderno scalo attrezzato a Pescara. Infine, per quanto riguarda il terziario avanzato, vanno ricordate la statalizzazione (1982) delle università di Chieti (con sedi anche a Pescara e Teramo) e L'Aquila, oltre all'apertura di un laboratorio geofisico nelle viscere del Gran Sasso, utilizzando il passaggio aperto dal traforo autostradale. Nel settore produttivo, invece, non sembra molto spiccata la tendenza all'innovazione tecnologica e le stesse maggiori città appaiono carenti nell'offerta di servizi finanziari e organizzativi destinati alle imprese. Nota a corredo. Il Report, su il reddito degli abruzzesi nel 2018 , del Dott. Aldo Ronci..